Usucapione relazionale e Riforma Cartabia – Il Piccolo 05.11.2023
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“A chi ci dice di non avere tempo, lasciamoglielo tutto”.

Nell’ambito del diritto di famiglia, tra i vari problemi che si affrontano, il più impellente è quello del tempo: gli interventi devono assolutamente essere tempestivi, decisivi e organizzati, perché – come è intuibile – in questo ambito non vi è tempo da perdere.

Infatti, i danni prodotti dal dilatarsi del tempo che le istituzioni si prendono per provvedere nel “merito” della situazione, non vanno ad incidere solo nell’ambito strettamente privato, ma hanno anche rilevanti ricadute pubblico-sociali, soprattutto quando si parla di figli minori.

Sì, perché vi è il rischio che il trascorrere del tempo possa sfociare in un consolidamento e quindi in un incancrenimento della situazione patologica che ha indotto uno dei due genitori a rivolgersi al giudice, che alla fine non può che avallarla e confermarla perché ormai “è così” da troppo tempo, neanche si trattasse di una sorta di “usucapione relazionale”.

Si pensi per esempio ai casi in cui, per accertare le cause del rifiuto di una delle due figure genitoriali, passino anni tra consulenze tecniche, interventi dei Servizi Sociali, colloqui al Consultorio, ulteriori audizioni dei figli e rinvii variamente declinati. Se il figlio rimane nello stesso ambiente e nelle stesse dinamiche per anni, in attesa di accertamenti, va da sé che la situazione, dopo anni, sia ben più difficile da risolvere e richieda interventi proporzionati alla gravità che lo stesso trascorre del tempo ha creato.

La riforma Cartabia, in vigore da qualche mese, ha cercato di intervenire accorciando i tempi di fruizione della giustizia e creando tutta una serie di meccanismi da “pronto-soccorso” giuridico-familiare.

Prima facie la riforma poteva lasciare intravedere la speranza di un’accelerazione della tempistica e in parte ci è riuscita,  ma si è subito comunque precipitati nel solito pantano procedurale, con sospensioni della decisione di merito in attesa che la Cassazione risolva i relativi enigmi e dipani le interpretazioni che da più parti si stanno accumulando nel tentativo di applicare la “semplificata” normativa di famiglia. Come dire che l’ambulanza che abbiamo chiamato, anziché portarci in ospedale per ricevere le cure (il “merito”), si ferma in parcheggio per discutere se la strada giusta è a desta o a sinistra. Eppure la CEDU ci aveva avvisati che non si possono risolvere le questioni con decisioni processuali, essendo preciso diritto di ogni cittadino che si rivolge alla giustizia quello di ottenere una decisione di merito (ossia, le cure dell’ospedale anziché la mera discussione sulla strada giusta per arrivarci).

Uno degli ultimi paesi a essere stati condannati sul punto dalla CEDU è stata la Grecia, il cui ricorrente vittorioso a Strasburgo ha atteso nove anni nel proprio paese per vedersi riconoscere la possibilità di fare il padre.

L’Italia non è da meno in punto condanne per lesione della vita privata e familiare: trascorrere addirittura anni nell’attesa di una pronuncia risolutiva, concernente rapporti familiari, significa rovinare per sempre la vita almeno ad una delle due parti: eppure è previsto che il giudicante “eserciti una diligenza eccezionale nelle cause concernenti il rapporto di una persona con il proprio figlio ”, come appunto stabilito dalla CEDU.

Nove anni di attesa; anche se fossero trascorsi solo la metà, sarebbero in ogni caso troppi.

Giovanna A. de’Manzano

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