
La sentenza della Corte d’Appello, emessa nei giorni scorsi e riguardante una coppia separata con un figlio, prevede anche che, se la madre non lavora per sua scelta, il padre non è obbligato a versare l’assegno di mantenimento.
Il bambino vedrà in ugual misura entrambi i genitori anche se ha quattro anni e, se la madre non lavora per sua scelta, il padre non è obbligato a versare l’assegno di mantenimento. Lo prevede una sentenza della Corte d’Appello di Trieste, presieduta dal giudice Daniele Venier, emessa nei giorni scorsi e riguardante una coppia separata e il bambino di quattro anni (tre all’epoca della sentenza di primo grado).
Il primo grado
La sentenza appellata prevedeva l’affidamento condiviso del minore a entrambi e residenza presso la madre, una disciplina dei tempi di permanenza del minore con i genitori sostanzialmente paritaria, e nei mesi estivi due settimane, possibilmente consecutive, con il padre, che avrebbe dovuto corrispondere un assegno di mantenimento per il figlio di 200 euro mensili oltre ad altre spese. Il padre è assistito dall’avvocato Simona Stefanutto del foro di Udine.
Il ricorso
Nel ricorso presentato dalla madre, assistita dall’avvocato Giovanna Augusta de’Manzano, veniva chiesto, fra le varie cose, un aumento dell’assegno di mantenimento e la riduzione delle visite estive al padre fino al compimento del sesto anno di età. Il tutto motivato dal fatto che va tutelata la fratria (vi sono altre due figlie adolescenti della madre) e perché “la madre, al momento, volontariamente non lavora appositamente per dedicarsi al figlio, mentre il padre ha impegni lavorativi quotidiani”. Inoltre la parte appellante ritiene le due settimane consecutive con il padre fossero “eccessive” per la giovane età del bimbo. Per contro, la difesa, ritiene che “tra le parti e con il figlio i rapporti sono sereni”, che il bimbo abbia “un ottimo rapporto” anche con il figlio unilaterale del padre, ormai maggiorenne, e che la presenza dei nonni paterni a casa del padre potrebbe “contribuire utilmente alla gestione del nipote”.
La sentenza in Appello
La corte ha non solo rigettato la richiesta di aumento dell’assegno, ma ha anche ritenuto “non essere dovuto” il contributo, visto il “paritario” calendario di frequentazioni e il fatto che “la decisione di non lavorare è autonomamente e liberamente assunta dalla ricorrente, di giovane età e pienamente abile al lavoro”. Parzialmente ricalibrata l’entità della permanenza estiva presso il padre (due settimane per entrambi i genitori, non consecutive). Sono state poi rigettate le altre istanze e la madre dovrà rimborsare le spese legali dell’appello. La Corte, inoltre, motiva la scelta ritenendo che la cosiddetta ‘maternal preference’, citata in alcune pronunce della Cassazione, “non risulta godere di un chiaro consenso nella comunità scientifica” e “andrebbe riferita a bambini di età inferiore a quella attuale”.
Così l’avvocato Stefanutto: “La Corte d’Appello ha stabilito due principi davvero importanti. Il primo, per cui la sostanziale pariteticità di tempo tra mamma e papà deve essere oramai la regola, non serve neppure provare che ciò sia conveniente è un fatto notorio anche per minori di asilo. Il secondo concetto, più rivoluzionario, è che, in riforma alla sentenza di primo grado, l’ex non deve mantenere il figlio in forma indiretta con assegno, se la madre per sua scelta non lavora ma ne ha le capacità. Con questa sentenza è finalmente garantito l’esercizio del diritto alla bigenitorialità. Si tratta di una conquista, tardiva in Italia”.
Così dichiara invece l’avvocato de’Manzano: “Prendo le distanze da provvedimenti in cui viene disposto un affidamento paritetico di bambini così piccoli, senza che venga svolta adeguata istruttoria per il tramite di una consulenza tecnica psicologica. Occorre infatti valutare le reali necessità di quello specifico minore, che ha già vari legami affettivi, abitudini, interessi che difficilmente vengono colti in poche pagine di sentenza da parte di un’Autorità che non ha conoscenza diretta di quel bambino. Il collocamento alternato non può assurgere a dogma, perché i genitori non sono sempre parimenti capaci in termini di accudimento, cura ed empatia verso quello specifico figlio”.
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