
“La condizione delle carceri in Italia, disumana a tal punto che il suicidio diventa un’opzione anche per chi in carcere vi lavora, è lo specchio della cultura della pena, che è tutto tranne che riabilitativa delle condizioni del detenuto, così come invece prevede la legislazione nazionale e sovranazionale.” spiega l’avv. Elisabetta Burla, Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti. L’indifferenza di chi ci governa da un lato è il riflesso della cultura che aleggia sul tema, visto che frasi quali “ in galera e buttiamo via la chiave..” sono ancora ben radicate nel nostro linguaggio, dall’altro è come se i detenuti diventassero un capro espiatorio di ogni nostra frustrazione personale non elaborata, per cui la loro condizione di tortura ci lascia appunto impassibili, come se fosse moralmente giusto che qualcun -altro- soffrisse ancora, dopo aver causato a propria volta indubbia sofferenza.
Porta il nome della senatrice Ilaria Cucchi il disegno di legge dal titolo “Norme in materia di autopsia obbligatoria in caso di morte avvenuta in carcere e introduzione di un presidio di consulenza legale obbligatoria nelle strutture detentive.”
Nelle premesse del ddl si legge che nel 2023 si è suicidato un detenuto ogni quattro giorni e mezzo e che il numero di suicidi in carcere è venti volte più diffuso rispetto alla popolazione libera; due detenuti su tre non hanno accesso ad alcuna forma di lavoro; nel 35% degli istituti non sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili.
Il ddl vuole appunto rendere obbligatoria e non facoltativa l’autopsia per i morti in carcere, al fine di sgombrare il campo da qualunque possibile dubbio in merito alle cause di morte; è previsto che il cadavere venga sempre fotografato, assicurando la descrizione delle vesti e degli oggetti rinvenuti con esso.
Oltre a ciò il ddl prevede l’istituzione di uno “Sportello legale” usufruibile dai detenuti per conoscere i loro diritti, con fruizione nella misura di almeno una volta a settimana.
Si parla di “Sportelli legali”, ma la verità è che in carcere neppure il vitto è sufficiente per sopravvivere, per cui, se non si hanno soldi propri per il “sopra-vitto” o non si hanno parenti amorevoli che provvedono in tal senso, ci si ammala per carenze alimentari; la verità è che nel reparto femminile mancano pure gli assorbenti; la verità è che a Trieste si sta in nove in celle pensate per quattro o meno detenuti, tutto ciò al netto di cimici nel materasso e fumo di sigarette consumate senza sosta, fumate passivamente anche da chi il fumo lo detesta.
Avv. Giovanna A. de’Manzano